Otto giorni nel nulla più assoluto (e più bello) del Kazakistan
Un viaggio nel Mangystau tra canyon, deserti e silenzi che ti cambiano dentro
“Perché proprio il Kazakistan?”
Me lo hanno chiesto in molti, prima di partire.
La risposta è arrivata dopo il secondo tramonto nel deserto, quando tutto era silenzio, il cielo sembrava troppo pieno di stelle per essere vero, e io non riuscivo più a pensare a niente.
Ero solo lì. Presente. Vivo.
E forse è proprio questo il motivo per cui si parte.
Sono arrivato ad Aktau con quella sensazione addosso che hanno certi aeroporti piccoli: un po’ disorientato, un po’ curioso, con la testa ancora piena del mondo da cui ero partito. Avevo deciso di prendermi un giorno intero per restare lì, in città, prima di iniziare il tour. Camminare sul lungomare del Mar Caspio, mangiare qualcosa di semplice, rallentare. È stato il modo giusto per lasciarmi alle spalle il rumore del quotidiano e iniziare a svuotarmi. Perché in questo viaggio, il pieno viene dopo. Molto dopo.
La mattina seguente Serik, il mio contatto in loco, ci ha caricati su un fuoristrada e portati all’ufficio, un posto spartano dove ci hanno fatto un piccolo briefing e offerto un tè caldo. Poco dopo, siamo partiti. La steppa ci ha inghiottiti piano piano, e il paesaggio è diventato sempre più surreale. La prima tappa è stata Jygylgan, un luogo che sembra crollato su sé stesso, un’immensa frana antica dove si dice siano state trovate impronte di tigri dai denti a sciabola. Un inizio forte, letteralmente instabile. Poi siamo andati a Kapamsay, un canyon di pietra e vento, e infine ci siamo ritrovati davanti alla moschea rupestre di Shakpak-Ata. Non c’è nulla attorno, solo silenzio e roccia. Dentro, ombra e pace. Quella notte abbiamo montato le tende e dormito lì vicino. Era la prima volta che dormivo nel nulla. Non sarebbe stata l’ultima.
Il giorno dopo è stato un susseguirsi di meraviglie impossibili. La valle di Torysh ci ha accolti con le sue strane sfere di pietra: tonde, lisce, giganti, sparse ovunque senza una logica. Un mistero geologico. Poi abbiamo proseguito per Kokala, un canyon che sembrava dipinto, con le sue rocce viola, rosse, arancio. E ancora Sherkala, la montagna che somiglia a una yurta o a una sfinge, solitaria e imponente. Ma è stato ad Airakty che mi sono sentito davvero piccolo: montagne che sembrano castelli, scolpite dal vento e dal tempo, che ci guardavano dall’alto mentre sistemavamo le tende. Non serviva molto altro, in realtà. Bastava esserci.
Il terzo giorno siamo arrivati a Tuzbair. Ma prima, lungo la strada, ci siamo fermati a fare colazione al Nurbayan, un “autogrill” polveroso all’incrocio di nulla e silenzio, dove si incrociano rotte infinite e volti consumati dal viaggio. Dentro, l’aria era densa di odori: olio caldo, carne speziata, sudore, tè. Un televisore gracchiava canzoni kazake, mentre camionisti afghani, turchi, e cinesi sedevano ai tavoli larghi, in silenzio, con la calma di chi ha visto tutto.
Abbiamo mangiato baursak appena fritti — piccoli pani dorati, caldi, morbidi come carezze — e li abbiamo intinti nel kaymak, una panna acida densa e vellutata. Il tè nero arrivava in tazze senza manico, sempre pieno, sempre bollente. Poi è arrivato il kasha di miglio, dolce, burroso, profumato di latte caldo. C’era anche del qurt, formaggio essiccato, salato, duro come il paesaggio che ci attendeva. Non era una colazione leggera, ma era perfetta. Di quelle che non nutrono solo il corpo, ma l’anima.
In quell’autogrill perso nel niente, tra lingue che non capivo e occhi che raccontavano strade infinite, ho sentito di essere davvero in viaggio. Un altrove ruvido, vivo, che entrava sotto pelle senza chiedere permesso.
Poi la distesa bianca e salata di Tuzbair ci ha accolti nel suo silenzio irreale. L’Arco Bianco ci è apparso all’improvviso, perfettamente intagliato dal tempo. Camminarci sotto sembrava un rito. Nel pomeriggio, abbiamo lasciato le tende per una notte speciale in una vera yurta. Il campo nomade era autentico, senza fronzoli, e la cena condivisa con gli altri viaggiatori ci ha fatto sentire parte di qualcosa. Era semplice, ma profondamente vero.
Poi è arrivato uno dei giorni più intensi. Abbiamo visitato Karaman-Ata, una necropoli sotterranea che sembra scavata nella memoria del deserto. Lì sotto, tra le tombe e i graffiti, il tempo si ferma. Più tardi siamo passati per la gola porosa di Ybyk — pareti scolpite come spugne di pietra — e ci siamo fermati a Janaozen, dove il mercato locale ci ha regalato sorrisi, tè caldo e odori che non so più nominare. Ma è stato il Tiramisu Canyon a prendersi tutta la scena: rocce a strati, colori come un dolce scomposto, bellezza da mangiare con gli occhi. Abbiamo dormito lì, tra le ombre morbide della sera e il profumo della terra secca.
Il giorno dopo sembrava di essere su Marte. Il monte Bokty si stagliava all’orizzonte come un’antica fortezza dimenticata, e poi, all’improvviso, ci siamo trovati dentro il paesaggio surreale del Parco di Bozjyra. Crinali bianchi, creste affilate, panorami da fine del mondo. Il Dragon Crest sembrava davvero la schiena pietrificata di un drago addormentato. Abbiamo camminato, fotografato, taciuto. E poi abbiamo montato il campo davanti al canyon che compare sulla banconota da 1000 tenge. In quel momento, ero più ricco di chiunque altro.
Il sesto giorno ci siamo svegliati all’alba per salire sulle Fangs, le zanne di Bozjyra. Due colossi bianchi che si alzano dalla terra come i denti di una divinità dimenticata. Dall’alto si vedeva tutto. Il deserto, il canyon, il silenzio. Poi siamo scesi e abbiamo guidato attraverso le scogliere, lasciandoci accarezzare da una bellezza lunare. Quella notte abbiamo dormito ai piedi delle Fangs, in uno dei luoghi più iconici che io abbia mai visto.
E poi è arrivato l’ultimo giorno. La chiusura perfetta. Le dune di Senek ci hanno accolti con la loro morbidezza infinita. Niente jeep, niente safari: solo sabbia, piedi nudi, vento. Camminarci sopra è stato come camminare dentro un sogno. E poi, la Karagie Hollow. Una depressione naturale profonda oltre 130 metri sotto il livello del mare. Lì, mi sono seduto e ho capito perché avevo scelto il Kazakistan. Non per vedere. Per sentire.
Siamo tornati ad Aktau in silenzio. Con gli occhi pieni e il cuore che sembrava battere più lento. Avevamo lasciato qualcosa laggiù, ma avevamo anche trovato qualcosa che non sapevamo di cercare.
E forse è proprio questo, in fondo, il vero senso di certi viaggi: non portarsi a casa souvenir, ma ritrovare pezzi di sé.
Se questo racconto ti ha parlato, se stai sognando di perderti in un altrove ancora autentico, ti invito a seguirmi qui su Substack.
Ogni mese condivido itinerari, esperienze e storie che vanno oltre la superficie e fuori rotta.
E se partire con me scrivimi: so già da dove potremmo cominciare.
🔥🔥